La verità è che i discorsi sul ricordo, sulla memoria e sull’assenza mi hanno stufata da tempo, e anche le varie similitudini con i quadri: il quadro che cade di Baricco e la solita menata di guardare i dipinti da una buona distanza per capirli meglio (che poi ero convinta andasse detto solo per gli impressionisti, che per tutti gli altri fosse ovvio).
In verità al liceo ero affascinata dall’assenza e dalla memoria, ricordo che una volta ho azzardato in un tema un paragone tra alcune liriche di Cavalcanti e di Petrarca. Diciamo che partivo sempre da una teoria e cercavo di dimostrarla, a costo di far dire agli autori cose che non dicevano affatto. In quel caso infatti dimostrai che Cavalcanti era tutto preso dal presente quanto Petrarca lo era dal passato confrontando i tempi verbali di alcune poesie che avevo opportunamente scelto.
Questa cosa di decidere prima la tesi e poi cercare di dimostrarla è impegnativo proprio come decidere cosa mettersi partendo da un paio di scarpe improbabili e io sono rimasta fregata ogni volta che ci ho provato.
Anche la storia del quadro che può cadere in qualsiasi momento perché il chiodo prima o poi cede, raccontata in Novecento o forse in Oceano Mare, mi era piaciuta tanto e l’avevo smerciata anche io quando avevo diciassette anni.
Però ben presto ho capito che il tema dell’assenza è un tema paraculo della critica letteraria, anche adesso si potrebbe dire che quello che scrivo è dominato dall’assenza, dal ricordo, dalla memoria.
Così come ben presto ho capito che non ero all’altezza della critica, e ho scelto di occuparmi di filologia, la materia che in assoluto più di ogni alta rispetta e non manipola il testo.
E sempre ben presto ho capito, per fortuna, che leggere Baricco era da paracula diciassettenne e io ormai avevo diciannove anni, e andavo all’università e il mio dovere era leggere cose davvero fighe tutti i giorni.
Perciò leggere il nostro aedo peytoniano è ancora più grave, ma io, condannata alla Sindrome di Verissimo, non posso resistere. Questa volta, oltre al fastidio, mi ha fatta sorridere e pensare al fatto che non mi ricordo il giorno in cui ho capito che non sarei mai stata una scrittrice. Forse non me lo ricordo perché non avevo mai pensato il contrario, infatti sono abbastanza certa di aver sempre voluto fare la maestra.
In ogni modo io so perché non sono una scrittrice: perché ho letto cose fighe e ho capito che gli scrittori scrivono cose davvero fighe.
Ci sono anche scrittori che scrivono cose fighe a proposito di scrittori davvero fighi, e questi scrittori sono i critici letterari. Io non sarò una critica letteraria perché non scrivo in modo figo di scrittori fighi, e anche perché ho sempre il terrore di quel terribile vizio di far dire le cose apposta agli autori. Una volta ho fatto dire all’Alfieri una cosa detta da Epicuro solo perché nella Mirra si ripeteva tante volte la parola “trema”. Un’altra volta ho fatto un lungo discorso basato sull'etimologia latina di una parola usata da tre autori, ma non avevo fatto i conti col fatto che i testi erano tradotti in italiano e che in quelli originali i termini avevano radici germaniche.
(A questo punto di questo post sono riuscita a essere interminabile senza aver ancora raggiunto il punto e mi sento anche un po’ come Chunk dei Goonies quando, con il dito nel frullatore, elenca tutte le marachelle fatte nella sua vita.)
Proprio per questo mi chiedo: il testo che segue, cos’è?
Forse sono solo i pensieri di un uomo che li considera così originali da doverli dare in dono anche a chi, ignaro, continua a vivere una vita di superficialità senza conoscerli:
Io ritengo semplicemente che la distanza dia il vero valore alle cose, come stare con gli occhi su un quadro, così vicino da poter distinguere le singole pennellate senza capirne il soggetto, poi allontanarsi e dare un senso a quei tratti di colore. Se il quadro vale poco sarà un bene dimenticare, e lo farai in fretta, se vale molto acquisterà nell’assenza una specie di eternità. Questo purtroppo comporta che la percezione esatta della dimensione di qualsiasi tipo di sentimento arriva quasi sempre in ritardo, ma è un male minore rispetto all’incoscienza. Proprio per questo io continuo a fidarmi delle distanze, e traggo ispirazione dalle assenze.
Ed ecco lo stesso tema trattato dalla prima vertebra della dorsale della poesia italiana, tema che verrà ripreso e reinventato talmente tante volte da far venire la nausea o quantomeno da far capire a chiunque conosca le basi della nostra letteratura che non è il caso di cimentarsi se quel che è già stato scritto è almeno perfetto a tal punto:
La vita fugge, e non s’arresta una ora,
e la morte vien dietro a gran giornate,
e le cose presenti, e le passate
mi dànno la guerra, e le future ancora;
e ‘l rimembrare e l’aspettare m’accora.
F. Petrarca, De rerum vulgarium fragmenta, 272, vv.1-5.
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